IBRIDAZIONE

IBRIDAZIONE

BOZZA - TESTO - RACCONTO

Era stanca del proprio corpo. Stanca di aver a che fare con il proprio corpo. Non che lo detestasse. Voleva solo potersi prendere una pausa. Meritata. Necessaria. Una pausa possibilmente lunga. Il più lunga possibile. Voleva non avere a che fare con il proprio corpo. Quando non era necessario. Quando poteva ignorarlo. Il suo corpo era troppo presente nella sua vita. Era normale che volesse non averci a che fare? Era normale che volesse dei momenti di pausa? Se lo chiedeva. Per scrupolo. Per capire se stava entrando in qualche campo contrassegnato da qualche etichetta psicopatologica. Per quanto una persona potesse essere sana, una qualche forma di depressione, o di dipendenza, o di labilità, era sempre dietro l'angolo e non trascurabile. Stava esagerando con l'uso del proprio corpo? Considerato che era giunta alla conclusione che le dipendenze, le ossessioni, i tratti devianti sarebbero stati i prossimi indicatori identitari. Da esibire o nascondere. A partire dalle espressioni curriculari. Che poi non era un problema di corpo. Il corpo in sé. Era un problema di come si interfacciava con il suo corpo o con qualsiasi altro elemento analogico o digitale con cui aveva a che fare. Un corpo non è niente. Non ha un valore o una valenza. Può non averla. E' insignificante. Irrilevante. Periferico. A volte astratto. Era tutta quella pelle che la infastidiva. Quella distesa irregolare ma insistente di pelle che, senza soluzione di continuità, formava e deformava il suo corpo. I capelli erano un accessorio. Pure le unghie. Le labbra e gli occhi e il naso. Erano considerabili e sopportabili. La distesa indefinita di pelle non lo era. E voleva prendersi una pausa anche dal corpo degli altri. Non detestava i corpi degli altri. Il suo corpo invece sì. Non era interessata a toccare altri corpi. Il suo poteva anche toccarlo, non la infastidiva. Era immaginarlo e pensarlo come una entità che la infastidiva. Non che volesse disfarsene. Il suo corpo era un oggetto da curare e definire, levigare e controllare, sentire o ignorare. I corpi degli altri proprio non la interessavano? Si stava chiedendo, nella sua metodologica accuratezza nell'analizzare a fondo un argomento. No. Non la interessavano. Perché era stanca del proprio corpo? No. Perché cercava possibilmente altro. Avrebbe preferito altro. Che cosa? Sguardi. Parole. Attenzioni. Carezze. Carezze? No. Carezze no. E gli sguardi non avrebbero dovuo essere sguardi per il suo corpo. Ma sguardi al suo viso, alle sua anima. A quello che lei era. Considerato che ognuno avrebbe potuto costruire un corpo desiderabile sembrava non essere più quello, il corpo, che poteva riscaldare o accendere una qualche passione. Doveva iniziare a preoccuparsi? Era in una fase di burn out professionale? O era solo una fase. Una transizione. Una maturazione ontologica ed esistenziale?

Era stanca del proprio corpo. Stanca di avere a che fare con il proprio corpo. Non che lo detestasse. Voleva solo potersi prendere una pausa. Meritata. Necessaria. Una pausa possibilmente lunga. Il più lunga possibile. Voleva non avere a che fare con il proprio corpo quando non era necessario. Quando poteva ignorarlo. Il suo corpo era troppo presente nella sua vita. Era normale che volesse non averci a che fare? Era normale che volesse dei momenti di pausa? Se lo chiedeva. Per scrupolo. Per capire se stava entrando in qualche campo contrassegnato da qualche etichetta psicopatologica. Per quanto una persona potesse essere sana, una qualche forma di depressione, di dipendenza o di labilità era sempre dietro l'angolo e non trascurabile. Stava esagerando con l'uso del proprio corpo? Considerato che era giunta alla conclusione che le dipendenze, le ossessioni e i tratti devianti sarebbero stati i prossimi indicatori identitari, da esibire o nascondere, a partire dalle espressioni curriculari. Che poi non era un problema di corpo. Il corpo in sé. Era un problema di come si interfacciava con il suo corpo o con qualsiasi altro elemento analogico o digitale con cui aveva a che fare. Un corpo non è niente. Non ha un valore o una valenza. Può non averla. È insignificante. Irrilevante. Periferico. A volte astratto. Era tutta quella pelle che la infastidiva. Quella distesa irregolare ma insistente di pelle che, senza soluzione di continuità, formava e deformava il suo corpo. I capelli erano un accessorio. Pure le unghie. Le labbra, gli occhi e il naso. Erano considerabili e sopportabili. La distesa indefinita di pelle non lo era. E voleva prendersi una pausa anche dal corpo degli altri. Non detestava i corpi degli altri. Il suo corpo invece sì. Non era interessata a toccare altri corpi. Il suo poteva anche toccarlo, non la infastidiva. Era immaginarlo e pensarlo come un'entità che la infastidiva. Non che volesse disfarsene. Il suo corpo era un oggetto da curare e definire, levigare e controllare, sentire o ignorare. I corpi degli altri proprio non la interessavano? Si stava chiedendo, nella sua metodologica accuratezza nell'analizzare a fondo un argomento. No. Non la interessavano. Perché era stanca del proprio corpo? No. Perché cercava possibilmente altro. Avrebbe preferito altro. Che cosa? Sguardi. Parole. Attenzioni. Carezze. Carezze? No. Carezze no. E gli sguardi non avrebbero dovuto essere sguardi per il suo corpo. Ma sguardi al suo viso, alla sua anima. A quello che lei era. Considerato che ognuno avrebbe potuto costruire un corpo desiderabile, sembrava non essere più quello, il corpo, che poteva riscaldare o accendere una qualche passione. Doveva iniziare a preoccuparsi? Era in una fase di burn-out professionale? O era solo una fase. Una transizione. Una maturazione ontologica ed esistenziale?

Il dubbio, come un insetto tenace, le ronzava intorno alla testa. Burnout? Transizione? Maturazione? Etichette rassicuranti, ma che non riuscivano a catturare la sfumatura esatta del suo disagio. Era qualcosa di più profondo, più radicale. Un'insoddisfazione non legata al lavoro, ma all'essenza stessa della sua esperienza corporea. Era come se il suo corpo fosse diventato un’interfaccia difettosa, un software mal progettato che rallentava il suo accesso al mondo. Il mondo che desiderava, quello fatto di sguardi penetranti, di conversazioni profonde, di connessioni intellettuali, era oscurato da questo involucro di pelle, questo peso costante che la ancorava a una dimensione fisica che la soffocava.

Iniziò a documentarsi. Non su malattie, ma su filosofie. Lettura dopo lettura, si immerse nel pensiero buddista, nell’idea dell’anatta, dell’assenza di un sé permanente, del corpo come aggregato temporaneo. Trovò conforto, ma non soluzione. L'anatta non eliminava il disagio, ma lo riformulava: non era il suo corpo a darle fastidio, ma l'attaccamento al suo corpo, la sua identificazione con esso. Era l’illusione di un'unità, di una coerenza che percepiva come fallace, come una gabbia autoimposta.

Si ritrovò a sperimentare tecniche di meditazione, cercando di distaccarsi, di osservare il suo corpo come un oggetto esterno, un paesaggio da contemplare, non un'estensione del suo io. Il risultato era frustrante. La sua mente, abituata a un flusso continuo di pensieri e analisi, si ribellava, ritrovando sempre la strada per tornare a quel senso di disagio, a quell’irritante presenza del suo corpo.

La ricerca la portò alla filosofia stoica. L'accettazione, la virtù, la saggezza: concetti che le sembravano più vicini alla sua condizione. Non si trattava di eliminare il corpo, ma di cambiare il suo rapporto con esso. Non di ignorarlo, ma di integrarlo nella sua filosofia di vita. Cominciò a praticare l'auto-osservazione, a notare i suoi impulsi, le sue reazioni, senza giudizio. Il suo corpo divenne un oggetto di studio, un esperimento.

Registrò ogni sensazione, ogni dolore, ogni piacere, catalogandoli in un taccuino, trasformando il suo disagio in dati. Il corpo, con le sue imperfezioni e le sue contraddizioni, divenne un testo da decifrare. Non cercò più di sfuggirgli, ma di comprenderlo, di trovare un'armonia, un equilibrio tra la sua realtà fisica e la sua realtà interiore. Iniziò a praticare lo yoga, non come una forma di tortura estetica, ma come un modo per prendere consapevolezza del suo corpo, per sentire i suoi muscoli, le sue ossa, il suo respiro.

Il suo approccio si fece più scientifico, più analitico. Studiò la biologia del corpo umano, la neurofisiologia, la psicologia somatica. Si rese conto che il suo malessere non era un'anomalia, ma un sintomo di una dissonanza tra corpo e mente, tra l'esperienza soggettiva e la realtà oggettiva. La soluzione non stava nell'eliminare il corpo, né nel trascenderlo, ma nell'integrare le due realtà, nell'accordare la mente e il corpo. Non era una fuga, ma un ricongiungimento. Il corpo non era più un peso, ma una sfida, un enigma da risolvere, un'equazione da bilanciare. Era solo l'inizio di un lungo processo di auto-conoscenza, di riconciliazione con se stessa, con il suo corpo e con il mondo.

La domanda, "Perché era stanca del proprio corpo?", rimbalzava nella sua mente come una pallina da ping-pong in una gabbia di vetro. La risposta, ovvia eppure sfuggente, si nascondeva tra le pieghe di una verità che non riusciva ancora ad articolare completamente. Era stanca perché il suo corpo, per anni, era stato uno strumento, un palcoscenico, una merce. Era stanca della precisione chirurgica con cui lo aveva preparato per ogni performance, della spietata analisi di ogni curva, di ogni imperfezione, per renderlo il più appetibile possibile allo sguardo altrui. Era stanca della meticolosa cura dedicata a quell’oggetto, un oggetto che, ironicamente, la faceva sentire profondamente estranea.

La parola "sex performer", fino a quel momento rimasta silenziosa, un fantasma sospeso nell'aria, ora si materializzava, svelandosi in un sussulto di amara consapevolezza. Non era solo la stanchezza fisica, lo stress, l’esaurimento. Era una stanchezza profonda, che le attorcigliava l'anima, un’alienazione dalla sua fisicità. Il suo corpo, oggetto di desiderio per gli altri, era diventato una gabbia per lei.

La pausa che desiderava non era semplicemente un periodo di riposo, ma una riconquista. Un riappropriarsi del suo corpo, spogliandolo di ogni aspettativa esterna, di ogni sguardo giudicante. Voleva ri-imparare a conoscerlo, a sentirlo come proprio, al di là della sua funzione, del suo valore di mercato. Voleva imparare ad amare la sua pelle non per la sua perfezione, ma per le sue imperfezioni, per le sue cicatrici, per la sua storia.

Il burn-out professionale era indubbiamente parte del problema, ma era solo la punta dell'iceberg. La transizione era reale, ma non solo ontologica o esistenziale. Era una rivoluzione. Doveva smantellare l'immagine che aveva costruito di sé, l’immagine che le aveva permesso di sopravvivere, per ricostruire qualcosa di autentico, qualcosa che non fosse solo un prodotto da vendere, ma un essere umano intero, con i suoi desideri, le sue paure, la sua fragilità. E la paura la attanagliava. La paura di non essere all'altezza della nuova se stessa, di non riuscire a staccarsi dal passato, di non trovare più un valore al di fuori del suo corpo.

Ma una flebile speranza, un piccolo seme di ottimismo, cominciava a germogliare. Quella stanchezza, quella profonda, insopportabile stanchezza, poteva essere anche la forza motrice del cambiamento. Era un dolore necessario, il dolore della rinascita.

Non sapeva dare una risposta definitiva. Gli interrogativi si accavallavano nella sua mente come un labirinto senza uscita. Si sentiva come un'ombra che vagava in un mondo di corpi, tutti così concreti e palpabili, mentre lei si sentiva sempre più evanescente, come se la sua essenza si stesse dissolvendo nel caos di una quotidianità che non le apparteneva più.

Camminava per le strade della città, osservando le persone intorno a lei, ognuna chiusa nel proprio corpo, ognuna intenta a vivere la propria vita. C'era chi rideva, chi piangeva, chi parlava animatamente, eppure a lei tutto sembrava distante, come se fosse un fantasma in un mondo che non riusciva a toccare. Le loro risate risuonavano come echi lontani, e le parole si disperdevano nell'aria, senza mai raggiungerla davvero.

Eppure, in quei momenti di osservazione, si accorgeva di qualcosa di strano. I corpi degli altri, che fino a quel momento le erano sembrati insignificanti, iniziavano a rivelare una certa bellezza, una fragilità. Le curve di una donna che si prestava ad un abbraccio, la postura di un uomo che camminava con sicurezza. Ma non era la bellezza fisica a catturare la sua attenzione; era piuttosto l'idea che ogni corpo raccontasse una storia, un vissuto, un'esperienza. E lei, immersa nella sua introspezione, si sentiva sempre più estranea.

Poteva esserci qualcosa di liberatorio nel distaccarsi dal proprio corpo, nel non identificarsi con esso? Forse, pensò, la vera libertà risiedeva nel riconoscere che il corpo era solo un involucro, un veicolo temporaneo. Ma, al tempo stesso, aveva paura. Paura di perdere il contatto con la realtà, paura di svanire del tutto, di diventare un'idea astratta priva di forma.

La sua mente tornò a vagare verso l'idea di una pausa. La pausa che desiderava non era solo fisica, ma anche mentale. Voleva allontanarsi da tutto ciò che la circondava, dai rumori, dalla frenesia, dalle aspettative. Sognava un rifugio, un luogo dove il tempo si fermasse e potesse finalmente respirare. Ma dove? Dove si sarebbe potuta rifugiare per trovare la pace?

In un momento di lucidità, si rese conto che la risposta era dentro di lei. La pausa non era un luogo fisico, ma uno stato d'animo. Doveva imparare a coltivare quella calma interiore, quella consapevolezza che andava oltre il corpo. Doveva permettersi di sentirsi, di essere, senza il peso del giudizio o delle aspettative altrui.

Mentre rifletteva su questo, si rese conto che il suo corpo, quel corpo che la infastidiva così tanto, era anche un alleato. Era il mezzo attraverso il quale viveva, provava emozioni, assaporava la vita. E se avesse cominciato a guardarlo con occhi diversi? Se avesse iniziato a considerarlo non come una gabbia, ma come un ponte verso il mondo?

All'improvviso, il suo respiro divenne più profondo. Un barlume di speranza si accese dentro di lei. Forse non era tutto perduto. Forse, con un po' di pazienza e un cambio di prospettiva, avrebbe potuto trovare un equilibrio tra il suo corpo e la sua anima. E così, decise di prendersi quella pausa, ma non per fuggire. La pausa sarebbe stata un'opportunità per esplorare, per ascoltare se stessa, per danzare in armonia con la propria esistenza.

Con un nuovo slancio, si avviò verso casa, pronta a iniziare il suo viaggio interiore. E mentre camminava, si sorprese a sorridere. Non era la fine, ma solo un nuovo inizio.

GIORGIO VIALI

AUTORE - SCENEGGIATORE, FOTOGRAFO, VIDEOMAKER, FILMMAKER - FOTOGRAFIA, CINEMA, TEATRO, SOCIAL MEDIA, SCENEGGIATURA, FOTOROMANZO, ROMANZO SOTTOCOSTO, RACCONTO, DRAMMATURGIA, MELODRAMMA - TESTI, CONTENUTI IBRIDI, IBRIDAZIONI, PERFORMANCE, VIDEAZIONI, USO IMPROPRIO, MINUSCOLA PRODUZIONE, INTELLIGENZA ARTIFICIALE - VICENZA, PADOVA, TREVISO, VERONA, VENEZIA, VENETO

INDIPENDENTE E PRECARIO

CONTATTI: GIORGIOVIALI@GMAIL.COM

INSTAGRAM: @GIORGIOVIALI

SITO PERSONALE:

WWW.GIORGIOVIALI.LIVE