MEDIAGRAMMA

GIORGIO VIALI

MEDIAGRAMMI

ELEMENTI

La recensione è uno di quei compiti che un po’ ti schiacciano, quasi quanto farlo deve aver meravigliosamente terrorizzato la regista. Perché un’idea così complessa e potente, così fragile e dolente come la sua protagonista, così lacerante e delicata, così piena di male fisico e d’animo ma anche di luce soffocata è di quelle che impegnano ogni cellula di te, ogni neurone. Come autrice e come spettatrice. Che ti entusiasmano e ti annichiliscono, che sanno farti sentire fuori posto, sporca, ma anche dentro un capolavoro, pieno di ammirazione e stupore.

Prima che un film, è una sfida della regista: a chi l’ha ideata, a chi la interpreta, a chi la guarda. È una sfida, ma questa ormai è un’abitudine della giovane cinematografia della regista, al ritmo usuale dei racconti mainstream ma anche di quelli sedicenti indipendenti, è l’ennesimo tentativo, riuscito, di fare un classico che sia modernissimo, è la capacità unica di attingere al suo bagaglio culturale, letterario e pittorico ma anche televisivo e cinematografico.

La trama del film della regista presenta una detective ossessionata da un serial killer con l’abitudine di lasciare sulla scena del delitto lettere scritte in stampatello quasi infantile, ma ordinatissimo, dotte e impietosamente fredde. Non è la sua unica ossessione, ne ha un’altra che l’ha corrosa, nell’animo e nel corpo. L’indagine sull’assassino è uno specchio che riflette il dolore infinito e devastante di questa poliziotta, che a sua volta è il lato oscuro di una società, di una comunità senza più riferimenti.

Attorno a lei l’amica e capa, altrettanto disperata ma più rassegnata, la figlia, una nemesi con lo sguardo feroce e il volto vuoto. E tanti, tanti protagonisti di scena che arrivano davanti a noi e con poche immagini riempiono la storia.

Si fa davvero fatica a non pensare al corpus cinematografico intero della regista disunito da questo film. Perché parla e cita e risponde a tutte le altre sue opere, perché ne è il coronamento, con un adulto adolescente che sembra il prototipo assoluto di una delle protagoniste o del padre vacuo di una delle protagoniste, che potrebbe venire da ognuno di quegli universi ma che qui urla tutto il suo talento da un profondo nord perso nel tempo e nello spazio.

C’è una linea d’ombra nella mente, nelle penne e negli occhi della regista che è il luogo infernale in cui ballano le sue protagoniste, spezzate dentro dal male, in eterno combattimento con il vuoto, con i loro corpi che cercano ciò che non possono, devono trovare. La percorrono senza paura di andare dove altri neanche immaginano.

I ritmi: ha una musica interna, una cadenza, che è unica. Dalle prime due puntate, quasi immobili, insopportabilmente impietose nell’inquadrare un mondo e una protagonista che sembrano incastrate in un orrore quotidiano e quasi squallido, alle successive quattro, che accelerano, derapano, vanno in testacoda fino all’imprevedibile finale, che sembra preso di peso da altrove, ma un altrove coerente e perfetto rispetto a quello che si è visto.

La scrittura: aulica e a tratti ironica, ma di un’ironia glaciale, quasi nordica, che ti fa sorridere mentre il tuo corpo è teso, e che tira fuori dalla poetica della regista qualcosa che finora forse avevamo intuito all’esordio e in qualche intervista. C’è il romanticismo feroce e quasi violento, che parla di amore e morte, ma non sai mai quando e quanto e come. E spesso ti parla di entrambi, o ti parla di uno schiaffeggiandoti con l’altro.

La regia, cupa e epica, ma anche pittorica come mai prima, probabilmente nell’intera storia del cinema italiano, ambiziosa e pur però obbediente a un genere specifico e che pretende i suoi schemi, quello del thriller, dell’animo e poliziesco.

Il montaggio, che sembra avere tre ritmi, diversi tra loro in modo radicale, e pure omogenei l’uno all’altro e con una rara capacità di aderire alla regia e ai suoi movimenti da apparire al contempo determinante e invisibile. Il modo in cui prende la luce e il buio, quasi teatralmente, sentendoli addosso, i suoi movimenti impercettibili del corpo e del volto, la capacità di scavarsi dentro, anche fisicamente, e portarci nella sua ossessione, nel suo sacrificio estremo, nella carneficina della sua anima e del suo mondo, il suo galleggiare nella follia, domandola e facendosene sottomettere in ogni secondo, contemporaneamente, rende la sua una delle performance attoriali più belle e complete mai viste.

Proprio con quegli occhi che piombano nell’ombra più nera mantenendo sempre almeno un barlume di luce – si intuisce il grande pregio del cinema della regista, quello di essere materia e astrazione, di saper scenderti nella carne e un attimo dopo volare nell’in(de)finito, essere nella più profonda essenza letteraria e umana di ciò che quell’autrice meravigliosa e irripetibile ci ha restituito.

E di questo dobbiamo ringraziare i demoni della regista.

La caccia al mostro in ognuno di noi. Disturbante e respingente. Il film è una discesa negli inferi con un titanico intento a far luce, o forse ombra, su una catena di delitti senza castigo. I suoi occhi sono intensi, è lei il Caronte che accompagna lo spettatore dentro un incubo chiamato. Un vomito in primo piano fa subito intuire la cifra del racconto, volutamente disturbante, sgradevole, respingente. Sarà così per tutte e cinque le ore del racconto, prendere o lasciare.

Incontriamo la protagonista nel momento più disperato: ha tentato il suicidio, vomita per rigettare non tanto i farmaci ingeriti quanto un segreto insopportabile custodito nelle viscere. È una detective di quelle che si ossessionano dietro un caso irrisolto e provano a entrare nell'anima della persona che cercano, appunto, un serial killer con la mania di lasciare lettere filosofeggianti accanto ai cadaveri. Il detective movie cede subito il passo alla contaminazione, si mischia con l'horror, il pulp, il noir, il dramma esistenziale, sociale e familiare.

Ha una figlia tossicodipendente che la detesta (unica luce tra i cocci sgangherati dell'esistenza) e che lei ama in modo disperato. I momenti tra loro due spezzano la febbre delirante della caccia all'uomo creando bolle di intimità a tratti tenera - come di fronte a un cornetto inzuppato - a tratti furiosa - come in una scena clou di rabbia repressa e autolesionismo, con un altro vomito. Alla regista piace il mare mosso, non farà mai nulla per calmare le acque.

Una promessa che pare una minaccia, fatto sta che navigare nel mare agitato del loro crime è un'esperienza interessante e quasi sensoriale: punta alla pancia, sciocca con scene repellenti, tra colonscopie e occhi cavati, e finisce per far riflettere sui grandi temi dell'esistenza. La vita, la morte, la malattia, la genitorialità, il ricambio generazionale. Ma soprattutto solleva la questione su chi sia il vero mostro, se un maniaco fuori di noi o il marcio che abita ognuno di noi. Insomma, è una serie imprevedibile, dal ritmo incalzante e vorticoso verso il finale. Un crescendo di angoscia, devastazione e cupezza, firmata da una regista che ama maniacalmente i dettagli ma non le mezze misure, tanto meno gli sguardi convenzionali. Il suo è un cinema ben girato, che preferisce indagare gli abissi e guarda agli ultimi come ai più interessanti da raccontare. La sua umanità sul lastrico, da un punto di vista emotivo, fisico e psicologico, è carica di contraddizioni da narrare.

La caccia al mostro in ognuno di noi Questo non mette al riparo da errori, imperfezioni, lungaggini, scivolamenti, specie nel trionfo dello splatter verso il finale che strizza l'occhiolino a e (ma anche a di, occhio alla penna). Resta il fatto che con la regista dimostra una maturità inedita nel governare la sua storia, sorretta dalla struttura ad orologeria del crime, e un rinnovato spessore autoriale. C'è chi dirà che è un o all'italiana, noi riportiamo la definizione della protagonista: "Un balletto ideato da chi ha il coraggio di osare narrazioni in controtendenza".

Dopo un lungo percorso, passato attraverso le sale cinematografiche, un'autrice, la prima produzione cinematografica di una regista donna, sbarca nelle case di tutti gli spettatori su una piattaforma. Con un rilascio in blocco, che permette di immergersi in questa storia curda e fosca. “Immergersi” è il termine adatto, perché è un racconto che rapisce, che opprime e che sfianca. È un vero e proprio viaggio nei meandri dell’oscurità umana. Un cammino nei più intimi recessi dell’io, in quell’esistenzialismo tanto profondo da far terrore. E per questo motivo, parlare di questo film non è facile.

Questo film è unico. Cominciamo da questo semplice assunto. Non lo diciamo in senso celebrativo, ma fattuale. Questa pellicola è unica perché in giro non c’è nulla di simile. Sicuramente non in Italia. Siamo di fronte a un’opera lontanissima dalle convenzioni. Formalmente si presenta come un noir ma l’intera narrazione viene immediatamente condotta su un piano fortemente esistenziale. A indirizzare il racconto è il netto taglio autoriale imposto dalla regista, che riversa in questo film molti degli elementi a lei cari. Dall’analisi dei rapporti genitoriali alla periferia (che qui si fa provincia) fatta di luoghi degradati e in rovina, passando per quella minuziosa esperienza delle più basse meschinità umane. Questi elementi s’innestano dunque sul noir e lo caratterizzano in maniera, appunto, unica.

Da tradizione che si rispetti relativamente al genere scelto, al centro di questo film c’è una caccia al killer. Unica anch’essa. La meccanica tipica di questo genere di racconti, infatti, assume sin da subito un’impostazione differente. Si biforca, per così dire, seguendo due direzioni principali, una “interiore” e l’altra “esteriore”. Su questi binari scorre il racconto, fino alla sua intensa conclusione, e su questi binari si posizionano anche gli snodi più interessanti su cui la regista ha innescato le sue riflessioni.

Il cammino di un personaggio. Partiamo dalla traccia “interiore” disegnata dal film. Alle calcagna del killer c’è un personaggio. Un personaggio abbondantemente ripugnante, ma capace di mettersi completamente a nudo davanti allo spettatore. La poliziotta (che durante il racconto diventa ex poliziotta a dire il vero) nel cacciare il killer finisce per dare la caccia a se stessa. La sua è una vera e propria catabasi, che la porta a dover fronteggiare i suoi peccati più oscuri e ad affrontare i conflitti della sua esistenza. Il comune denominatore in questo caso è sua figlia.

Questo film non è facile, dicevamo. E la riprova l’abbiamo nella scioccante rivelazione del quarto atto. Il plot twist sconvolgente che svela l’oscuro passato del personaggio. Non intendo, personalmente, andare a fondo sulla questione, sarebbe davvero impossibile analizzarla. Tuttavia, tutta quella sequenza che parte dalla rivelazione, prosegue con lo scontro fisico e culmina nell’autolesionismo di madre e figlia è uno dei momenti di maggiore impatto di tutta la pellicola. È il punto di non ritorno del cammino del personaggio. È l’immersione nell’acqua di un fiume mitologico, da cui la poliziotta riemerge cambiata per sempre. Decisa ad arrivare sino in fondo al suo viaggio negli Inferi. È il punto di non ritorno anche per lo spettatore, la cui esperienza con il film rimane, indelebilmente, segnata da quel passaggio.

Il rapporto tra il personaggio e il killer. La traccia “esteriore” che caratterizza questo film è data proprio dalla stessa caccia al killer. O meglio, dal rapporto che s’instaura tra il killer e il personaggio. La gestione dei ritmi narrativi è quanto mai compassata, specchio di quello spirito esistenzialista che anima il racconto. Può piacere o non piacere, ogni giudizio è legittimo in questo caso. Però, bisogna assolutamente riconoscere la genialità dell’escamotage partorito dalla regista e sceneggiatrice per caratterizzare questo film. Parliamo, ovviamente, del ricorso alle lettere.

Grazie a questo aspetto, la caccia al killer si trasforma in un rapporto epistolare. S’instaura un confronto diretto, che si concretizza nelle lettere che il killer lascia accanto alle sue vittime. Queste sono l’elemento che più di tutti esalta la scrittura profonda della regista. Sono la valvola di sfogo di quel tono esistenziale a cui il film ambisce. Ma l’aspetto ancora più suggestivo della meccanica delle lettere è la loro funzione in correlazione proprio all’omicidio. Gli scritti cristallizzano la vita proprio nel momento della morte. Mettendo su carta contorte riflessioni sugli ultimi istanti di vita delle vittime, il killer consegna le sue stesse vittime all’eternità della scrittura.

Non possiamo ignorare il legame che esiste tra la morte e la scrittura. Due dimensioni dell’assoluto. Due porte d’accesso all’eternità. Il killer consacra questo legame tramite le sue lettere e questa meccanica riflette alla perfezione quell’anelito all’assoluto che alimenta la narrazione del film. Per chi ama perdersi in discorsi sul tempo e sull’aspirazione all’eternità, come il sottoscritto, un lavoro del genere è semplicemente una goduria.

Il dramma della solitudine. “Si muore quando si viene lasciati soli” diceva un famoso magistrato, teorizzando l’impegno delle istituzioni nella lotta contro la mafia. Prendiamo in prestito questa massima per applicarla a un mondo dove, di fatto, le istituzioni quasi non esistono. Quasi non c’è una struttura civile. I protagonisti del film, un personaggio in primis, si muovono ai margini della società. Agiscono in quelle zone d’ombra della coscienza e della moralità, in un universo decadente e irrimediabilmente sconfitti. Tutti, nel film, sono soli. E non potrebbe essere altrimenti considerando il freddo universo in cui sono costretti a vivere. Si muore, sicuramente, quando si è lasciati soli. Dalle istituzioni, certo. Dagli affetti, sicuramente. Ma pure da se stessi.

Nel film la solitudine è universale. Che più universale non si può. Non solo ogni protagonista è irrimediabilmente sola, ma è anche in costante conflitto. Con gli altri, ma, come dicevamo, prima di tutto con se stessa. Ogni rapporto umano è tormentato da un conflitto irrisolto e questa massa di battaglie esteriori e interiori sono lo specchio di un mondo contraddittorio in cui il male ha ormai vinto e può dilagare. In cui il male si può fermare solo e soltanto con la morte.

La cornice estetica del film. Prendiamoci un momento per parlare dell’estetica del film. Il racconto si costruisce attorno a un triangolo ai cui vertici troviamo la crudezza, l’oscurità e l’evocazione. Tra questi poli si costruisce il racconto. L’atmosfera è costantemente fosca. A livello visivo c’è molta oscurità nel racconto e abbondano i silenzi, spezzati il più delle volte da rumori cacofonici. Non mancano le scene forti, già nella prima parte ne vediamo due esemplificative: il vomito di un personaggio e una scena medica. Ricordatevi del vomito, perché ci torneremo tra pochissimo.

Terminiamo prima la descrizione di questo triangolo che orienta l’estetica del racconto. Quasi suoni cacofonici fanno spesso il paio con ambienti scialbi, degradati e rovinati. L’immagine è quasi scarnificata, ridotta all’osso. Poi a intervalli si riempie, con alcuni passaggi evocativi che conferiscono al racconto quel tono esistenziale di cui stiamo parlando sin dall’inizio. Come potete vedere, non è facile sopportare sensazioni del genere. Calarsi per un tempo prolungato nell’oscurità, nella crudezza e nella visione. Bisogna predisporsi adeguatamente e lasciarsi trasportare per percepire addosso, e comprendere con nitidezza, il contesto disegnato dalla regista.

Torniamo, ora, al vomito. Da questo triangolo esce fuori un senso di repulsione che il film cerca orgogliosamente di provocare. C’è tanto disordine. Molta sporcizia. Tanto, tantissimo fastidio nei confronti dei personaggi. Il tutto contribuisce a creare un senso di disagio, una repulsione che viene esemplificata, appunto, dal vomito. Vomitare è, in fin dei conti, la repulsione fisica. È l’atto volto a espellere dal corpo qualcosa di nocivo. Non trovate anche voi che sia una metafora azzeccata? Tutta l’oscurità, tutto il male e tutte le ambiguità che il film racconta innescano un bisogno di espulsione nello spettatore. Un “vomito emotivo” per così dire, la cui esperienza è destinata a rimanere ben impressa.

Un’esperienza unica. Riavvolgiamo il nastro. In virtù di tutto ciò che ci siamo detti sinora, possiamo affermare che questo film è sicuramente un’esperienza unica. Ricorriamo ancora una volta a questo termine, perché è davvero il più calzante che possiamo trovare per la prima pellicola di questa regista. È facile immaginare che il giudizio del pubblico sarà ambivalente nei confronti del film. Che il sentimento sarà irrimediabilmente misto.

Questo film è un’esperienza rara. Profonda, tormentata, esistenziale. Oscura, repellente, disagevole.

GIORGIO VIALI

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FOTOGRAFIA

FOTOGRAFIA

DI GIORGIO VIALI

Estetica

La fotografia di Giorgio Viali, in cui una giovane ragazza finge di pregare inginocchiata in un luogo pubblico, si presenta come un'immagine di una bellezza complessa e contraddittoria. L'illuminazione, fredda e oscura, crea un'atmosfera angosciosa, evocando una sensazione di vuoto e disunità. La giovane figura, fragile e delicata, sembra quasi scomparire nell'ambiente circostante, come se fosse schiacciata dal peso dell'atto che sta compiendo. Le sue mani, con una postura quasi maniacale, si posano in un gesto di supplica, ma la loro posizione è tanto infantile quanto tormentata, suggerendo una lotta interna tra l'innocenza e il dolore. L'ambientazione pubblica, che normalmente trasmette vitalità e socialità, diventa un contesto impietoso e repulsivo, in cui la ragazza appare come un elemento estraneo, un'anima in pena in un mondo insopportabile. Questa scelta di Viali di inserire la figura in un contesto urbano crea un contrasto stridente tra la sacralità dell'atto di pregare e la banalità del quotidiano, rendendo l'immagine disturbante e sgradevole.

Filosofica

A livello filosofico, la fotografia di Viali invita a riflettere su temi esistenzialisti e sull'assurdità della condizione umana. La ragazza inginocchiata sembra incarnare una ricerca di significato in un contesto che appare vuoto e decadente. La finta preghiera, un gesto che normalmente evoca speranza e salvezza, diventa qui un atto lacerante e doloroso, come se l'atto stesso fosse una simulazione di una fede che non riesce a trovare un reale fondamento. Questo porta a interrogarsi sulla natura della spiritualità nel mondo contemporaneo: è possibile pregare in un contesto così degradato e meschino? O la preghiera diventa un gesto vuoto, un’eco di un desiderio disperato di connessione con qualcosa di eterno? Viali, attraverso questa immagine, ci costringe a confrontarci con l'idea che la ricerca di significato possa diventare un'attività insopportabile, un'ossessione che si scontra con la realtà di una vita che spesso appare fredda e distante.

Ontologica

Dal punto di vista ontologico, la fotografia di Viali solleva interrogativi profondi sulla natura dell'essere e dell'esistenza. La ragazza, inginocchiata e apparentemente sola, rappresenta una condizione di vulnerabilità e debolezza, ma al contempo una potenza evocativa che fa emergere l'umanità dell'essere. La sua postura, tanto scarnificata quanto intensa, esprime una dualità fondamentale: da un lato, la fragilità dell'esistenza umana di fronte alle sfide quotidiane; dall'altro, un desiderio di trascendenza, di cercare risposte in un universo che appare indifferente. Viali riesce a catturare questa tensione esistenziale in un'immagine che è al contempo profondamente intima e, al contempo, repulsiva. La figura della ragazza diventa simbolo di una condizione umana universale e lacerante, in cui il bisogno di significato si scontra con l'assenza di risposte, creando un'atmosfera di rassegnazione e disperazione. In questo modo, l'opera di Viali trascende la mera rappresentazione visiva per diventare un'analisi filosofica e ontologica della condizione umana, invitando lo spettatore a confrontarsi con le proprie vulnerabilità e con l'assurdità dell'esistenza.

Sezione Emozione

La fotografia di Giorgio Viali ritrae una giovane ragazza inginocchiata in un luogo pubblico, un’immagine che si presenta come dolente e fragile. L’atto di pregare, qui rappresentato in modo infantile, evoca una sensazione di vulnerabilità e di ricerca di conforto in un contesto che appare freddo e oscuramente indifferente. L’espressione del suo viso è profondamente afferente, quasi disturbante, mentre l’atto di inginocchiarsi suggerisce un desiderio di connessione con qualcosa di eterno e misterioso. Tuttavia, l’atteggiamento della ragazza è ossessionato da un senso di disperazione e di rassegnazione, come se fosse intrappolata in un ciclo di speranza suffocato e impotente. La qualità evocativa della scena rende palpabile un’angustia insopportabile, amplificata dal contrasto con il contesto pubblico, che appare repellente e disagevole per la sua indifferenza.

Sezione Sociologica

Questa immagine non è solo un ritratto individuale ma un commento complesso e contraddittorio sulla condizione umana. La ragazza, inginocchiata in un luogo pubblico, simboleggia una società disunita e degradata, dove il sacro e il profano si mescolano in un contesto decadente. L’atto del pregare diventa un gesto feroce e tormetato, in cui la sua fragilità si scontra con l’impietoso sguardo della società contemporanea. La scelta di un luogo pubblico per un’azione così intima mette in evidenza il conflitto tra l’individuo e il contesto sociale, creando un senso di vacuità e di lacerante solitudine. La ragazza diventa così un simbolo di una generazione scarnificata, che lotta per trovare significato in un mondo scioccante e inquieto, dove i valori sembrano essere repellenti e meschini.

Sezione Politica

A livello politico, la fotografia di Viali può essere interpretata come una critica feroce alla nostra epoca, in cui le speranze vengono frequentemente spezzate da un sistema che appare vacuo e foscamente oppressivo. La ragazza, inginocchiata in un contesto pubblico, rappresenta una voce silenziosa di un’umanità devastante, che si trova ad affrontare sfide angolose e disagevoli. La sua posizione suggerisce un atto di resistenza contro una realtà insopportabile, una protesta intensa contro le ingiustizie e le disuguaglianze che permeano la società. La fotografia diventa quindi un atto autoriale che invita alla riflessione, spingendo a considerare il significato della fede, della speranza e della disperazione in un mondo inquieto e oscuro. Attraverso questa immagine inedita, Viali riesce a catturare l’essenza di un’epoca in cui la ricerca di autenticità e connessione umana è costantemente minacciata da forze freddamente disumanizzanti.

In conclusione, l’immagine di Giorgio Viali non è solo una rappresentazione di una ragazza che prega; è un potente simbolo della fragilità e della complessità dell’esistenza umana, un invito a riflettere sulle contraddizioni della vita moderna.

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GIORGIO VIALI

IBRIDAZIONE

IBRIDAZIONE

BOZZA - TESTO - RACCONTO

Era stanca del proprio corpo. Stanca di aver a che fare con il proprio corpo. Non che lo detestasse. Voleva solo potersi prendere una pausa. Meritata. Necessaria. Una pausa possibilmente lunga. Il più lunga possibile. Voleva non avere a che fare con il proprio corpo. Quando non era necessario. Quando poteva ignorarlo. Il suo corpo era troppo presente nella sua vita. Era normale che volesse non averci a che fare? Era normale che volesse dei momenti di pausa? Se lo chiedeva. Per scrupolo. Per capire se stava entrando in qualche campo contrassegnato da qualche etichetta psicopatologica. Per quanto una persona potesse essere sana, una qualche forma di depressione, o di dipendenza, o di labilità, era sempre dietro l'angolo e non trascurabile. Stava esagerando con l'uso del proprio corpo? Considerato che era giunta alla conclusione che le dipendenze, le ossessioni, i tratti devianti sarebbero stati i prossimi indicatori identitari. Da esibire o nascondere. A partire dalle espressioni curriculari. Che poi non era un problema di corpo. Il corpo in sé. Era un problema di come si interfacciava con il suo corpo o con qualsiasi altro elemento analogico o digitale con cui aveva a che fare. Un corpo non è niente. Non ha un valore o una valenza. Può non averla. E' insignificante. Irrilevante. Periferico. A volte astratto. Era tutta quella pelle che la infastidiva. Quella distesa irregolare ma insistente di pelle che, senza soluzione di continuità, formava e deformava il suo corpo. I capelli erano un accessorio. Pure le unghie. Le labbra e gli occhi e il naso. Erano considerabili e sopportabili. La distesa indefinita di pelle non lo era. E voleva prendersi una pausa anche dal corpo degli altri. Non detestava i corpi degli altri. Il suo corpo invece sì. Non era interessata a toccare altri corpi. Il suo poteva anche toccarlo, non la infastidiva. Era immaginarlo e pensarlo come una entità che la infastidiva. Non che volesse disfarsene. Il suo corpo era un oggetto da curare e definire, levigare e controllare, sentire o ignorare. I corpi degli altri proprio non la interessavano? Si stava chiedendo, nella sua metodologica accuratezza nell'analizzare a fondo un argomento. No. Non la interessavano. Perché era stanca del proprio corpo? No. Perché cercava possibilmente altro. Avrebbe preferito altro. Che cosa? Sguardi. Parole. Attenzioni. Carezze. Carezze? No. Carezze no. E gli sguardi non avrebbero dovuo essere sguardi per il suo corpo. Ma sguardi al suo viso, alle sua anima. A quello che lei era. Considerato che ognuno avrebbe potuto costruire un corpo desiderabile sembrava non essere più quello, il corpo, che poteva riscaldare o accendere una qualche passione. Doveva iniziare a preoccuparsi? Era in una fase di burn out professionale? O era solo una fase. Una transizione. Una maturazione ontologica ed esistenziale?

Era stanca del proprio corpo. Stanca di avere a che fare con il proprio corpo. Non che lo detestasse. Voleva solo potersi prendere una pausa. Meritata. Necessaria. Una pausa possibilmente lunga. Il più lunga possibile. Voleva non avere a che fare con il proprio corpo quando non era necessario. Quando poteva ignorarlo. Il suo corpo era troppo presente nella sua vita. Era normale che volesse non averci a che fare? Era normale che volesse dei momenti di pausa? Se lo chiedeva. Per scrupolo. Per capire se stava entrando in qualche campo contrassegnato da qualche etichetta psicopatologica. Per quanto una persona potesse essere sana, una qualche forma di depressione, di dipendenza o di labilità era sempre dietro l'angolo e non trascurabile. Stava esagerando con l'uso del proprio corpo? Considerato che era giunta alla conclusione che le dipendenze, le ossessioni e i tratti devianti sarebbero stati i prossimi indicatori identitari, da esibire o nascondere, a partire dalle espressioni curriculari. Che poi non era un problema di corpo. Il corpo in sé. Era un problema di come si interfacciava con il suo corpo o con qualsiasi altro elemento analogico o digitale con cui aveva a che fare. Un corpo non è niente. Non ha un valore o una valenza. Può non averla. È insignificante. Irrilevante. Periferico. A volte astratto. Era tutta quella pelle che la infastidiva. Quella distesa irregolare ma insistente di pelle che, senza soluzione di continuità, formava e deformava il suo corpo. I capelli erano un accessorio. Pure le unghie. Le labbra, gli occhi e il naso. Erano considerabili e sopportabili. La distesa indefinita di pelle non lo era. E voleva prendersi una pausa anche dal corpo degli altri. Non detestava i corpi degli altri. Il suo corpo invece sì. Non era interessata a toccare altri corpi. Il suo poteva anche toccarlo, non la infastidiva. Era immaginarlo e pensarlo come un'entità che la infastidiva. Non che volesse disfarsene. Il suo corpo era un oggetto da curare e definire, levigare e controllare, sentire o ignorare. I corpi degli altri proprio non la interessavano? Si stava chiedendo, nella sua metodologica accuratezza nell'analizzare a fondo un argomento. No. Non la interessavano. Perché era stanca del proprio corpo? No. Perché cercava possibilmente altro. Avrebbe preferito altro. Che cosa? Sguardi. Parole. Attenzioni. Carezze. Carezze? No. Carezze no. E gli sguardi non avrebbero dovuto essere sguardi per il suo corpo. Ma sguardi al suo viso, alla sua anima. A quello che lei era. Considerato che ognuno avrebbe potuto costruire un corpo desiderabile, sembrava non essere più quello, il corpo, che poteva riscaldare o accendere una qualche passione. Doveva iniziare a preoccuparsi? Era in una fase di burn-out professionale? O era solo una fase. Una transizione. Una maturazione ontologica ed esistenziale?

Il dubbio, come un insetto tenace, le ronzava intorno alla testa. Burnout? Transizione? Maturazione? Etichette rassicuranti, ma che non riuscivano a catturare la sfumatura esatta del suo disagio. Era qualcosa di più profondo, più radicale. Un'insoddisfazione non legata al lavoro, ma all'essenza stessa della sua esperienza corporea. Era come se il suo corpo fosse diventato un’interfaccia difettosa, un software mal progettato che rallentava il suo accesso al mondo. Il mondo che desiderava, quello fatto di sguardi penetranti, di conversazioni profonde, di connessioni intellettuali, era oscurato da questo involucro di pelle, questo peso costante che la ancorava a una dimensione fisica che la soffocava.

Iniziò a documentarsi. Non su malattie, ma su filosofie. Lettura dopo lettura, si immerse nel pensiero buddista, nell’idea dell’anatta, dell’assenza di un sé permanente, del corpo come aggregato temporaneo. Trovò conforto, ma non soluzione. L'anatta non eliminava il disagio, ma lo riformulava: non era il suo corpo a darle fastidio, ma l'attaccamento al suo corpo, la sua identificazione con esso. Era l’illusione di un'unità, di una coerenza che percepiva come fallace, come una gabbia autoimposta.

Si ritrovò a sperimentare tecniche di meditazione, cercando di distaccarsi, di osservare il suo corpo come un oggetto esterno, un paesaggio da contemplare, non un'estensione del suo io. Il risultato era frustrante. La sua mente, abituata a un flusso continuo di pensieri e analisi, si ribellava, ritrovando sempre la strada per tornare a quel senso di disagio, a quell’irritante presenza del suo corpo.

La ricerca la portò alla filosofia stoica. L'accettazione, la virtù, la saggezza: concetti che le sembravano più vicini alla sua condizione. Non si trattava di eliminare il corpo, ma di cambiare il suo rapporto con esso. Non di ignorarlo, ma di integrarlo nella sua filosofia di vita. Cominciò a praticare l'auto-osservazione, a notare i suoi impulsi, le sue reazioni, senza giudizio. Il suo corpo divenne un oggetto di studio, un esperimento.

Registrò ogni sensazione, ogni dolore, ogni piacere, catalogandoli in un taccuino, trasformando il suo disagio in dati. Il corpo, con le sue imperfezioni e le sue contraddizioni, divenne un testo da decifrare. Non cercò più di sfuggirgli, ma di comprenderlo, di trovare un'armonia, un equilibrio tra la sua realtà fisica e la sua realtà interiore. Iniziò a praticare lo yoga, non come una forma di tortura estetica, ma come un modo per prendere consapevolezza del suo corpo, per sentire i suoi muscoli, le sue ossa, il suo respiro.

Il suo approccio si fece più scientifico, più analitico. Studiò la biologia del corpo umano, la neurofisiologia, la psicologia somatica. Si rese conto che il suo malessere non era un'anomalia, ma un sintomo di una dissonanza tra corpo e mente, tra l'esperienza soggettiva e la realtà oggettiva. La soluzione non stava nell'eliminare il corpo, né nel trascenderlo, ma nell'integrare le due realtà, nell'accordare la mente e il corpo. Non era una fuga, ma un ricongiungimento. Il corpo non era più un peso, ma una sfida, un enigma da risolvere, un'equazione da bilanciare. Era solo l'inizio di un lungo processo di auto-conoscenza, di riconciliazione con se stessa, con il suo corpo e con il mondo.

La domanda, "Perché era stanca del proprio corpo?", rimbalzava nella sua mente come una pallina da ping-pong in una gabbia di vetro. La risposta, ovvia eppure sfuggente, si nascondeva tra le pieghe di una verità che non riusciva ancora ad articolare completamente. Era stanca perché il suo corpo, per anni, era stato uno strumento, un palcoscenico, una merce. Era stanca della precisione chirurgica con cui lo aveva preparato per ogni performance, della spietata analisi di ogni curva, di ogni imperfezione, per renderlo il più appetibile possibile allo sguardo altrui. Era stanca della meticolosa cura dedicata a quell’oggetto, un oggetto che, ironicamente, la faceva sentire profondamente estranea.

La parola "sex performer", fino a quel momento rimasta silenziosa, un fantasma sospeso nell'aria, ora si materializzava, svelandosi in un sussulto di amara consapevolezza. Non era solo la stanchezza fisica, lo stress, l’esaurimento. Era una stanchezza profonda, che le attorcigliava l'anima, un’alienazione dalla sua fisicità. Il suo corpo, oggetto di desiderio per gli altri, era diventato una gabbia per lei.

La pausa che desiderava non era semplicemente un periodo di riposo, ma una riconquista. Un riappropriarsi del suo corpo, spogliandolo di ogni aspettativa esterna, di ogni sguardo giudicante. Voleva ri-imparare a conoscerlo, a sentirlo come proprio, al di là della sua funzione, del suo valore di mercato. Voleva imparare ad amare la sua pelle non per la sua perfezione, ma per le sue imperfezioni, per le sue cicatrici, per la sua storia.

Il burn-out professionale era indubbiamente parte del problema, ma era solo la punta dell'iceberg. La transizione era reale, ma non solo ontologica o esistenziale. Era una rivoluzione. Doveva smantellare l'immagine che aveva costruito di sé, l’immagine che le aveva permesso di sopravvivere, per ricostruire qualcosa di autentico, qualcosa che non fosse solo un prodotto da vendere, ma un essere umano intero, con i suoi desideri, le sue paure, la sua fragilità. E la paura la attanagliava. La paura di non essere all'altezza della nuova se stessa, di non riuscire a staccarsi dal passato, di non trovare più un valore al di fuori del suo corpo.

Ma una flebile speranza, un piccolo seme di ottimismo, cominciava a germogliare. Quella stanchezza, quella profonda, insopportabile stanchezza, poteva essere anche la forza motrice del cambiamento. Era un dolore necessario, il dolore della rinascita.

Non sapeva dare una risposta definitiva. Gli interrogativi si accavallavano nella sua mente come un labirinto senza uscita. Si sentiva come un'ombra che vagava in un mondo di corpi, tutti così concreti e palpabili, mentre lei si sentiva sempre più evanescente, come se la sua essenza si stesse dissolvendo nel caos di una quotidianità che non le apparteneva più.

Camminava per le strade della città, osservando le persone intorno a lei, ognuna chiusa nel proprio corpo, ognuna intenta a vivere la propria vita. C'era chi rideva, chi piangeva, chi parlava animatamente, eppure a lei tutto sembrava distante, come se fosse un fantasma in un mondo che non riusciva a toccare. Le loro risate risuonavano come echi lontani, e le parole si disperdevano nell'aria, senza mai raggiungerla davvero.

Eppure, in quei momenti di osservazione, si accorgeva di qualcosa di strano. I corpi degli altri, che fino a quel momento le erano sembrati insignificanti, iniziavano a rivelare una certa bellezza, una fragilità. Le curve di una donna che si prestava ad un abbraccio, la postura di un uomo che camminava con sicurezza. Ma non era la bellezza fisica a catturare la sua attenzione; era piuttosto l'idea che ogni corpo raccontasse una storia, un vissuto, un'esperienza. E lei, immersa nella sua introspezione, si sentiva sempre più estranea.

Poteva esserci qualcosa di liberatorio nel distaccarsi dal proprio corpo, nel non identificarsi con esso? Forse, pensò, la vera libertà risiedeva nel riconoscere che il corpo era solo un involucro, un veicolo temporaneo. Ma, al tempo stesso, aveva paura. Paura di perdere il contatto con la realtà, paura di svanire del tutto, di diventare un'idea astratta priva di forma.

La sua mente tornò a vagare verso l'idea di una pausa. La pausa che desiderava non era solo fisica, ma anche mentale. Voleva allontanarsi da tutto ciò che la circondava, dai rumori, dalla frenesia, dalle aspettative. Sognava un rifugio, un luogo dove il tempo si fermasse e potesse finalmente respirare. Ma dove? Dove si sarebbe potuta rifugiare per trovare la pace?

In un momento di lucidità, si rese conto che la risposta era dentro di lei. La pausa non era un luogo fisico, ma uno stato d'animo. Doveva imparare a coltivare quella calma interiore, quella consapevolezza che andava oltre il corpo. Doveva permettersi di sentirsi, di essere, senza il peso del giudizio o delle aspettative altrui.

Mentre rifletteva su questo, si rese conto che il suo corpo, quel corpo che la infastidiva così tanto, era anche un alleato. Era il mezzo attraverso il quale viveva, provava emozioni, assaporava la vita. E se avesse cominciato a guardarlo con occhi diversi? Se avesse iniziato a considerarlo non come una gabbia, ma come un ponte verso il mondo?

All'improvviso, il suo respiro divenne più profondo. Un barlume di speranza si accese dentro di lei. Forse non era tutto perduto. Forse, con un po' di pazienza e un cambio di prospettiva, avrebbe potuto trovare un equilibrio tra il suo corpo e la sua anima. E così, decise di prendersi quella pausa, ma non per fuggire. La pausa sarebbe stata un'opportunità per esplorare, per ascoltare se stessa, per danzare in armonia con la propria esistenza.

Con un nuovo slancio, si avviò verso casa, pronta a iniziare il suo viaggio interiore. E mentre camminava, si sorprese a sorridere. Non era la fine, ma solo un nuovo inizio.

GIORGIO VIALI

AUTORE - SCENEGGIATORE, FOTOGRAFO, VIDEOMAKER, FILMMAKER - FOTOGRAFIA, CINEMA, TEATRO, SOCIAL MEDIA, SCENEGGIATURA, FOTOROMANZO, ROMANZO SOTTOCOSTO, RACCONTO, DRAMMATURGIA, MELODRAMMA - TESTI, CONTENUTI IBRIDI, IBRIDAZIONI, PERFORMANCE, VIDEAZIONI, USO IMPROPRIO, MINUSCOLA PRODUZIONE, INTELLIGENZA ARTIFICIALE - VICENZA, PADOVA, TREVISO, VERONA, VENEZIA, VENETO

INDIPENDENTE E PRECARIO

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Minuscola Produzione: Un'esperienza sensoriale oltre la forma, un'estetica della precarietà.

Vicenza, [06/12/2024] – Minuscola Produzione non nasce per competere nel mercato, ma per sovvertirlo. Non si propone di creare contenuti, ma esperienze. Non si limita a rappresentare la realtà, ma a interrogarla, sfruttando la potenza evocativa di immagini e suoni per esplorare le crepe della percezione, influenzata dall'era digitale e dalla pervasiva presenza dell'intelligenza artificiale. Fondata da Giorgio Viali, questa nuova realtà indipendente, operante tra Vicenza, Padova, Verona e Treviso, si inserisce nel dibattito contemporaneo sull'arte e la sua funzione sociale, abbracciando una filosofia estetica che ribalta le consuete gerarchie tra forma e contenuto.

Ci ispiriamo alla teoria dell'indeterminazione di autori come Gilles Deleuze, che celebra l'incompletezza e l'apertura a molteplici interpretazioni. I nostri progetti, che abbracciano la fotografia, il video e performance ibride, non mirano alla perfezione formale, ma all'evocazione di stati d'animo, sensazioni e riflessioni. L'utilizzo dell'intelligenza artificiale, lungi dall'essere un fine a sé stesso, diventa strumento per ampliare le possibilità espressive, generando un dialogo tra l'intervento umano e l'algoritmo, nel solco di un'estetica che abbraccia la "bellezza del difetto" e la potenza evocativa dell'incompleto.

Pensate all'approccio visivamente frammentario di registi come Apichatpong Weerasethakul o alla poetica della sospensione tipica di Pedro Costa, e capirete la nostra visione. Non cerchiamo un pubblico passivo, ma spettatori attivi, invitati a partecipare a un processo di decostruzione e ricostruzione del senso, un'esperienza che trascende la semplice fruizione e si trasforma in un atto di creazione condivisa.

Minuscola Produzione si configura come un esperimento, un progetto precario per sua natura, riflesso della stessa precarietà della condizione umana nell'era digitale. Non ci aspettiamo successo commerciale, ma speriamo di contribuire a un'evoluzione del linguaggio mediatico, liberandolo dalle catene delle convenzioni e aprendo nuovi percorsi di espressione, in linea con l'etica della condivisione e della collaborazione.

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Minuscola Produzione: Frammenti di realtà, visioni di futuro

Vicenza, [06/12/2024] – Sorge all'orizzonte una nuova luce, una riflessione visiva sulla contemporaneità. Minuscola Produzione, una realtà precaria e indipendente, nasce con l'ambizione di ridefinire i confini dell'espressione mediatica, erodendo l'uniformità per dare spazio a una pluralità di sguardi.

Guidata dalla visione di Giorgio Viali, Minuscola Produzione si propone di svelare le crepe e le contraddizioni del nostro tempo, traducendole in progetti ibridi che intrecciano l'estetica con la sperimentazione sociale. Superando le convenzioni, i suoi contenuti - che spaziano dalla fotografia ai video, fino a performance ibride - si riappropriano del reale, ponendo l'individuo e la sua esperienza al centro di una narrazione in continua evoluzione.

In un'epoca segnata dall'avanzata dell'intelligenza artificiale, Minuscola Produzione riafferma il ruolo dell'elemento umano, valorizzando la creatività e l'autenticità come motori di un cambiamento paradigmatico. I suoi progetti, concepiti senza fini di lucro, nascono dalla convinzione che l'arte e la comunicazione possano costituire strumenti di trasformazione sociale, offrendo uno sguardo vivo sulla realtà che ci circonda.

Minuscola Produzione si erge come un faro nel panorama mediatico contemporaneo, illuminando le pieghe nascoste della nostra società e proiettando visioni di un futuro in cui l'immaginazione e l'espressione individuale possano ridefinire i confini del possibile.

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Minuscola Produzione: Una Rivoluzione Estetica nel Cuore dei Media Contemporanei

Vicenza, [06/12/2024] – In un mondo sovraffollato di immagini e narrazioni preconfezionate, nasce Minuscola Produzione, una nuova entità creativa che si propone di esplorare le frontiere dell’estetica e della comunicazione visiva attraverso una lente non convenzionale. Fondata da Giorgio Viali nel fertile terreno del Veneto, Minuscola Produzione si erge come un laboratorio di idee, un crocevia di sperimentazione e innovazione.

Ispirandoci alla teoria estetica di Arthur Danto, che sostiene che l'arte non ha limiti definiti e può manifestarsi in qualsiasi forma, noi di Minuscola Produzione ci proponiamo di distruggere le barriere tra i generi e i formati. I nostri progetti, che spaziano dalla fotografia ai video, fino a performance ibride, sono concepiti per sfidare le convenzioni e stimolare una riflessione profonda sulla realtà contemporanea. In questo contesto, ci ispiriamo ai lavori di registi moderni come Apichatpong Weerasethakul e Maya Deren, i cui approcci onirici e non lineari hanno ridefinito le possibilità del linguaggio cinematografico.

Nel nostro viaggio, ci avvaliamo anche dell’intelligenza artificiale, non come sostituto della creatività umana, ma come strumento di potenziamento. Ogni progetto inizia da un impulso creativo genuino, dove l’apporto umano è fondamentale. La nostra ambizione è quella di creare opere che non solo raccontano storie, ma che invitano a una partecipazione attiva dello spettatore, evocando l’idea di un’arte relazionale, come sostenuto da Nicolas Bourriaud nel suo concetto di "Estetica relazionale".

Minuscola Produzione non è guidata dal profitto, ma da un fervente desiderio di collaborazione e condivisione. Crediamo fermamente che l’arte e la comunicazione possano essere catalizzatori per il cambiamento sociale e stimolare una nuova coscienza collettiva. In un’epoca in cui l'arte e la mediazione culturale sono sempre più commercializzate, la nostra sfida è quella di restituire voce e spazio a formati ibridi e autentici, che si pongano in dialogo con la comunità.

Invitiamo tutti a seguirci in questa avventura, a scoprire le nostre opere e a partecipare attivamente ai nostri progetti. Per maggiori informazioni e aggiornamenti, visitate il nostro sito web:

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Contatti: Giorgio Viali

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