PERFORMANCE
GIORGIO VIALI
IBRIDAZIONI
La performance di Aristea
Aristea si trovava di fronte allo schermo, il chiarore blu che le illuminava il volto segnato da un’espressione di un certo torpore. Era un altro pomeriggio di routine. La camera era ridotta a un cubo d’aria stagnante, un luogo dove il tempo si era fermato e la vita pulsava tra cavi e pixel. La luce artificiale accentuava i lineamenti di un viso che doveva essere aggraziato, ma che ora tradiva la fatica e lo scorrere inesorabile di giornate sempre uguali.
Il popolo virtuale la adorava. Ogni sera, centinaia di avatar si radunavano nel suo salotto digitale, dove lei si svelava a pezzi. Ogni sessione era una danza innaturale tra l’intimità e la mercificazione, un’illusione di connessione che si dissolveva non appena il pixel si spegneva. Le monetine fluttuavano, ricoprendo il vuoto con promesse di affetto, a volte anche di desiderio, ma nel profondo di quel circo di voyeurismo, non si percepiva altro che una desolazione palpabile.
Aristea eseguiva, ma non sentiva più. Era un’attrice che aveva smesso di voler recitare, un corpo che performava senza passione. Ogni movimento era impostato, ogni sguardo calcolato. Il suo pubblico, un miscuglio di perdenti e solitari, cercava rifugio nel virtuale, lasciando fuori le frustrazioni della vita. E in quella giungla di pixel, lei si muoveva come un fantasma, fluttuando tra lati oscuri e luci abbaglianti.
Le videochiamate di Aristea non offrivano alcun conforto reale. Un uomo, dietro alla sua anonima identità, le confessava di sentirsi solo, ma la sua voce si perdeva nell’etere. Ogni confessione si trasformava in un oggetto commerciale, un modo per tenere in circolo il denaro e il mnemonico senso di bisogno. Aristea rifletteva su quanto fosse distante la vita autentica da quell’enorme palcoscenico interattivo. I corpi che desiderava erano solo nomi e immagini, a lungo dimenticati.
C’era un compagno di avventure, Fabrizio. Si erano incontrati in un forum, scambiandosi le miserie di vite che correvano parallele, una sorta di terapia virtuale. Le loro chiacchierate spesso scivolavano verso territori più intimi, al punto che Fabrizio le propose un incontro reale. La risposta di Aristea fu un silenzio carico di ambiguità. La paura di una verità sotto forma di carne si scontrava con il bisogno ardente di sfuggire la solitudine.
La notte che decisero di vedersi, Aristea si preparò come se dovesse esibirsi. Si vestì con cura, scegliendo un abito che moldeva il suo corpo, cercando di cancellare il residuo del disincanto. Fabrizio arrivò in orario, il suo volto smunto come un déjà-vu economico di un’epoca che non sarebbe tornata mai, un testimone del fallimento e dell’attesa.
Si sedettero nel bar, le parole fluttuavano come polvere nell’aria stagnante. Ogni sorriso era un invito, ma anche una barriera. Aristea cercava conferma, una connessione, mentre Fabrizio rimaneva ancorato alla sua invisibilità, incapace di superare la soglia tra il digitale e il reale.
Un attimo di silenzio, poi Aristea parlò. "Siamo solo due fantasmi che si cercano", disse. La frase risuonò, assordante nella sua banalità, e Fabrizio annuì, consapevole di vivere in un’epoca in cui ogni sogno si era frantumato come un’immagine in un video distorto.
Lasciarono il bar senza mai toccarsi, due anime vagabonde intrappolate in un cerchio di impossibilità. Aristea tornò a casa, il pensiero di Fabrizio la seguiva come un’ombra. Si spogliò davanti allo schermo, essa stessa il suo miglior pubblico, prima di riattivare la connessione. La sera riprese, e con essa il balletto della vacuità.
Non c’era niente di più crudele della nudità virtuale, della pulizia ostentata sotto gli occhi dei curiosi. Gli spettatori guardavano, ma Aristea non danzava per loro; danzava per non sentirsi più sola nel suo crudo, inquietante esilio.
GIORGIO VIALI
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